venerdì 29 marzo 2013

Interviste dietro le quinte: Sergio Panariello, aiuto regia


Ecco l’intervista al braccio destro del regista di Take Five, l’aiuto regia Sergio Panariello, che ci racconta la sua esperienza durante.



Quali sono stati i momenti di maggiore stress  durante il corso delle riprese?

In realtà sono state sei settimane di stress, per tutta la durata del film. A parte gli scherzi, il maggiore stress era quando giravamo nei luoghi più complicati, tipo il tunnel borbonico, l’acquedotto dell’Arin e il palazzo della Borsa dove abbiamo anche avuto problemi di elettricità. Quando giri in posti così difficili e che sai che devi per forza completare le riprese nella giornata perché non potrai ritornarci, la pressione per chi lavora aumenta parecchio.  

C’è qualche scena cui sei legato maggiormente?

Non c’è una scena in particolare, sono stati tutti dei bei momenti.
È sempre stata forte la sensazione che tutto funzionava mentre giravamo. Attori, location, tutta la creazione del film andava nella giusta direzione. Per esempio, questa sensazione era molto presente durante la scena di Peppe Lanzetta e Gaetano Di Vaio in barca. Ma ripeto, è stata comunque una percezione generale che si andava rafforzando man mano si costruiva il film.

Come ti sei trovato a lavorare con la troupe?

Più che altro come si è trovata la troupe a lavorare con me! Visto il mio ruolo di coordinare reparti, ero costretto a dover pressare tutti quanti. Però, come succede in ogni film, è sempre un po’ come una battaglia. Quando sto sul set mi trasformo, divento cattivo ma solo perché il mio obiettivo è quello di portare a termine il film, quindi ogni cosa che può ostacolare va affrontato immediatamente.  Però mi sono trovato bene. Ogni cosa ha funzionato nel mondo giusto.

Come era il tuo rapporto con gli attori?

Molto buono con tutti. Il fatto di poter provare prima delle riprese ha creato un rapporto di fiducia e rispetto reciproco per il lavoro che si stava facendo. Loro sapevano che tutte le richieste fatte e i cambiamenti in corso d’opera erano per uno scopo preciso. Ci siamo ritrovati a lavorare in condizioni un po’ difficili rispetto ad alcune location, senza alcuna comodità e quindi a volte ero costretto a pressarli. Però questa cosa veniva recepita bene e non ci sono mai stati incomprensioni o conflitti. Anzi, c’è stato sempre un ottimo rapporto.

E con il regista?

Portare a termine un film è sempre un’avventura. È bello partire dall’inizio. Per Take Five ho collaborato anche in alcune cose della sceneggiatura quando abbiamo fatto il piano di lavorazione. E in tutte le fasi, ogni volta che lavoro con Guido, imparo delle cose, mi arricchisco. Sulle riprese, per esempio, anche se viene fatto un piano di massima, con lui non è proprio una cosa precisa, c’è flessibilità di poter cambiare in corso d’opera. Magari organizzativamente può complicare sul set, ma avere questo tipo di flessibilità è una cosa che porta poi il film alla fine con quel qualcosa in più. Guido ragiona proprio sulla messa in scena, sugli attori e da lì si fa un’idea del punto macchina. È molto bello lavorare con lui proprio perché si fa molte domande.

Avevate mai lavorato insieme?

Ho iniziato ad affiancare Guido dai suoi primi lavori, quindi dal cortometraggio Vomero Travel e poi Là-bas. Però pensa, una volta lui mi ha fatto da operatore su un corto che non ho mai finito. Era prima che iniziasse a fare il regista. Poi mi ha superato...

Come sei arrivato a lavorare nel cinema?

Me lo sto chiednedo ancora. Perché sono finito a lavorare nel cinema? Scherzo. Ho cominciato con un corso per la regia di documentari. Non che fossi particolarmente interessato al genere, ma l’avevo visto come un modo per avvicinarmi al cinema. In realtà poi mi sono piaciuti molto i documentari. Successivamente ho fatto uno stage presso Teatri Uniti e da lì ho conosciuto Nicola Giuliano che mi ha fatto lavorare con Gennaro Fasolino e con Capuano come aiuto regia. 

Hai consigli per chi vorrebbe intraprendere questa carriera?

È serie di coincidenze supportate da una predisposizione e bravura nella velocità di apprendere. Bisogna avere l’umiltà di mettersi a fare qualisasi cosa per capire veramente l’essenza di questo lavoro e quello che c’è dietro la realizzazione di un film. Spesso si arriva a voler fare senza sapere realmente di cosa si stratta e senza avere una visione totale e rispetto di chi lavora. È bene ricordare che la realizzazione di un film è un lavoro collettivo.

(Intervista a cura di Giorgio Caruso, foto di Tiziana Mastropasqua)  

Il "Malamente": l'intervista video a Gaetano Di Vaio

Intervista a cura di Roberta Serretiello.

giovedì 28 marzo 2013

Interviste dietro le quinte: Alessandro Marangolo, attrezzista di scena



Continuano le interviste dietro le quinte alla troupe, reale motore di questa grande macchina chiamata cinema. Questa volta uno tra i più giovani sul set, Alessandro Marangolo, attrezzista di scena, ci racconta la sua esperienza nel mondo della scenografia filmica. 



Come sei arrivato sul set di Take Five?

Tramite Maica Rotondo (caporeparto scenografia n.d.r.) e ci conosciamo perché abbiamo delle amicizie in comune. Lei ha visto alcuni lavori cui avevo preso parte e mi ha chiesto di far parte del team in questa esperienza. Abbiamo iniziato la preparazione, insieme anche a Giuseppe Carbone e Mario Schiano, poi però mi sono distaccato dal reparto per stare sul set.

Sei sicuramente tra i più giovani sul set, ma già molto esperto. Lavori da molto nel cinema?

Si, sono uno dei più giovani sicuramente. Forse della mia stessa età c’è solo Francesco Buonocore, l’elettricista. Ho iniziato molto presto a lavorare, avevo 19 anni, e per prima cosa ho fatto teatro. Ho studiato all’Accademia delle Belle Arti, seguendo il lavoro di una mia professoressa che si occupava di scenografie teatrali, poi ho lavorato per una stagione al Teatro Nuovo nei Quarieri Spagnoli.

E come sei approdato al cinema?

Il primo film è stato Gorbaciòf di Stefano Incerti, dove mi sono anche un po’ imposto perché avrei dovuto lavorare in produzione, ma ho insistito per stare in scenografia! Lino Fiorito, che era il caporeparto, aveva un lavoro che lo impegnava tre giorni, quindi ha insistito perché ci fosse qualcuno sul campo in quel periodo. Poi, però, ha deciso che avrei dovuto seguire tutto il film con lui e quindi sono rimasto.

Poi, altri lavori?

Ho lavorato con alcuni direttori della fotografia come Nicola Pecorini e Luca Bigazzi – che per me è una grande ispirazione sia sul piano professionale che su quello umano, perché da lui ho imparato molto di come ci si comporta con la gente sul set.

E con Lombardi avevi mai lavorato?

Purtroppo non avevo mai avuto modo di conoscere Guido prima di questo film. Me lo ha presentato Maica ma, devo essere onesto, già conoscevo il suo lavoro perché la sua opera prima mi è molto piaciuta. Avevo l’opportunità di andare a lavorare altrove, ma ho deciso di fare lo stesso questo film nonostante i limiti economici e produttivi cui inevitabilmente si va incontro in questo tipo di produzioni. Mi piace molto la sua visione.

Cosa speri per questo film? Cosa credi accadrà quando uscirà nelle sale?

Non ci penso mai a queste cose! Non è il mio primo film, ne ho fatti già un po’, e tendo a non fare mai di certi pensieri perché quello che vedi in scena non è mai totalmente quello che poi vedi sullo schermo. Il montaggio fa molto, e prima di vedere il prodotto finito non mi pronuncio e, ripeto, non ci penso neanche, altrimenti fremerei per vedere il film e non vivrei bene l’esperienza sul set!

(Intervista a cura di GianPaolo Improta, foto di Tiziana Mastropasqua)  

L'intervista video a Carmine "L'uomo qualunque" Paternoster

Intervista a cura di Roberta Serretiello.

mercoledì 27 marzo 2013

Interviste dietro le quinte: Daniele Maraniello, fonico


Con la sua solita schiettezza, ecco l’intervista al fonico Daniele Maraniello sulla sua avventura sul set di Take Five.


Quali sono stati i momenti di maggiore stress, durante il corso delle riprese?

Sicuramente quando abbiamo girato all’esterno del tombino a via Argine, durante gli ultimi giorni di riprese. Il problema, almeno per l’audio, è che avevamo a cinque metri di distanza una strada ad altissimo scorrimento e quindi traffico. Anche le  location complicate, come le fogne o il tunnel borbonico, non sono state semplici. Però è stata solo una questione iniziale. Una volta capito come organizzarci tutto è filato liscio.

C’è qualche scena cui sei legato maggiormente?

Quella dell’incontro clandestino di boxe con Ruocco, Di Vaio e Striano. Un piano sequenza fatto 36 volte dove ogni volta è stato aggiustato qualcosina finché non è stata battezzata la scena più bella. L’unico dramma riguarda quella che a mio avviso sembrava la migliore, dove ho avuto un piccolo problema ambientale per il suono perché è passata un’ambulanza a sirene spiegate. Però, con le urla delle comparse, ci sono ottime possibilità di recuperarla. Ma, ad ogni modo, dal punto di vista corale resta una scena brillante, dove tutti sono riusciti ad avere il massimo da quello che potevano avere in quel momento. Non dimentichiamolo mai, il cinema è un opera corale.

Come ti sei trovato a lavorare con la troupe? 

Sono giovani di grandi speranze. Un po’ indisciplinati, ma con tanta voglia di fare. In alcuni casi ho dovuto essere il poliziotto cattivo, ma solo per gestire sul set situazione non proprio facili.

Com'era il tuo rapporto con gli attori?

Un po’ difficoltoso, perché qualcuno è un semiprofessionista e tutti avevano ruoli e scene complicate, spesso di lunga durata. Abbiamo dovuto comprendere come riuscire a far funzionare bene tutto, anche tecnicamente. E’ stato complicato però ci siamo adattati anche noi e il risultato è stato buono.

E con il regista?

È
stato ottimo. Guido è una persona molto attenta. Sicuramente ha una visione d’insieme del film. Ci sono stati momenti in cui lui è venuto incontro all’audio e viceversa.  Però poi ha sempre ragione il regista perché lui sa qual è il momento fondamentale.  È una persona attenta a tutti i reparti e, dove ha potuto, ha cercato di accontentare le esigenze dell’audio.

Avevate mai lavorato insieme?

No, è stato un battesimo. Però è stato un battesimo di fuoco, anche perché questo film ha un peso differente.
È come se fosse una seconda volta un’opera prima perché Guido ha dovuto adattarsi alle regole più rigide da set.

C’è qualche episodio del dietro le quinte che vuoi raccontarci?

La sensibilità dell’attrezzista di scena, Alessandro Marangolo, che ad un certo punto ha messo una piantina con un fiore sopra il mio carrello dicendo che doveva avere un po’ più di colore.

Come sei arrivato a lavorare nel cinema?

Passando attraverso la musica. Poi per caso feci un cortometraggio a Napoli come assistente alla regia. Era in costume ed ebbi la fortuna di coordinare trucco, parrucco, gli attori. Mi innamorai del set. Un vero e proprio colpo di fulmine. Lasciai la musica, dove ero anche ben inserito, e piombai di corsa a Roma facendo una meravigliosa gavetta.  

Hai consigli per chi vorrebbe intraprendere questa carriera?

Nonostante il momento sia difficilissimo e complicatissimo, perché quello che davano un tempo adesso non lo daranno più, bisogna caricarsi di volontà e umilità e con queste due forze mettersi sotto la guida esperta di un grande professionista e apprendere quanto più possibile. Mettere in pratica facendo da volontario a persone di grande esperienza perché questo lavoro è tecnico/artigaile e creativo.
È un passaggio molto importante, ma purtroppo sta sparendo perché i neofiti si spacciano per esperti senza avere le giuste conoscenze e quindi rischiamo di perdere un mestiere. 

(Intervista a cura di Giorgio Caruso, foto di Tiziana Mastropasqua)